Come nasce la dipendenza da social network e smartphone?

I risultati del sondaggio svolto nel 2017 dall’Associazione Di.Te. (Associazione Nazionale Dipendenze Tecnologiche, Gap e Cyberbullismo) parlano chiaro: il 51% dei ragazzi tra i 15 e i 20 anni ha difficoltà a prendersi una pausa dalle nuove tecnologie e arriva a controllare lo smartphone in media 75 volte al giorno. Il 7% lo fa fino a 110 volte al giorno. Non va meglio agli adulti, perché il 49% degli over 35 non sa stare senza cellulare, verifica se sono arrivate notifiche o messaggi almeno 43 volte al giorno. Un 6% arriva anche a sfiorare le 65 volte, e il 58% non riesce a stare 3 ore senza buttare un occhio sullo schermo.

È tutta colpa della dopamina! 

Fin qui, i numeri che fotografano la nostra “dipendenza”.

La domanda che tutti ci poniamo è sicuramente la stessa: perché è così difficile resistere alla tentazione di accendere lo schermo dello smartphone o di controllare spesso le nostre attività social, anche quando siamo immersi in altre attività?

Come per ogni forma di dipendenza, la responsabilità di questo meccanismo è della dopamina, una sostanza prodotta dal nostro cervello che ci dà una gratificazione immediata e che ci induce a cercare ancora ciò che ci ha appena soddisfatto.

La dopamina è la sostanza che garantito la nostra sopravvivenza come esseri umani, perché era ciò che spingeva i cacciatori a cercare nuova selvaggina per sfamare le proprie tribù.

Quello prodotto dalla dopamina, attraverso le “ricompense variabili intermittenti”, è il meccanismo che, come abbiamo detto, sta alla base di ogni dipendenza. Quindi, considerando il modello dei social media e delle notifiche, ogni volta che “vinciamo” (arriva una nuova notifica), il nostro cervello produce dopamina e ci fa attendere una nuova gratificazione.

Ogni volta che “perdiamo” (nessuna nuova notifica) il nostro cervello ci induce comunque a reiterare l’azione (controllare nuovamente la posta, aggiornare Facebook, riaccendere lo schermo del nostro smartphone, tutti meccanismi che ricordano anche fisicamente il rilanciare in una macchinetta da gioco) nella speranza di ottenere la gratificazione.

Nel mondo “digitale” le ricompense variabili intermittenti sono ad esempio le notifiche. Così, ad esempio, quando su Facebook compare una notifica con un nuovo “mi piace” il nostro cervello produce una scarica di dopamina che ci fa provare una brevissima sensazione di piacere e ci porta a sentire il desiderio di ricontrollare ancora, nella speranza inconscia di ricevere nuove ricompense e provare nuovamente quella sensazione.

La stessa cosa succede quando il nostro smartphone “bippa” e ci mostra una nuova notifica di WhatsApp.

Economia dell’attenzione

Per attivare questa configurazione mentale i social network mischiano sapientemente cose interessanti e cose che non lo sono per tenerci inchiodati allo schermo e coinvolgerci il più possibile.

La motivazione dell’utilizzo di questa tattica è presto detta: più tempo passiamo su questi servizi, più dati possono essere raccolti su di noi e quindi maggiore sarà la possibilità di esporci alle inserzioni pubblicitarie mirate, che sono la vera anima di Facebook & co. Ogni minuto in più che trascorriamo sulle piattaforme vale per le aziende milioni di dollari. 

Cosa le piattaforme vogliono “farci fare”

Le piattaforme e gli strumenti digitali sono strutturati per sfruttare a loro vantaggio (tenerci legati a loro) non solo la nostra continua necessità di cercare – e trovare – ricompense, ma anche per sfruttare le nostre vulnerabilità emotive.

Sì, perché se ci pensiamo bene, quando ci troviamo ad affrontare emozioni negative perché siamo stressati, annoiati, frustrati, arrabbiati il richiamo dello smartphone si fa irresistibile. Oltre a questo, poi, per catturare la nostra attenzione le piattaforme fanno leva sulle nostre parti più impulsive. Per questo gli algoritmi sono istruiti per mostrarci ciò che ci indigna. Anche l’indignazione, infatti, è una ricompensa psicologica, perché ci permette di costruire un forte senso di identità con chi la pensa come noi, facendoci sentire riconosciuti. Questo è un passaggio molto delicato, perché può arrivare influenzare la nostra partecipazione consapevole alla cosa pubblica.

La soluzione è chiudere tutto?

Dato questo scenario un po’ apocalittico, sembra che la soluzione migliore sia quella di chiudere tutto, tornare ai vecchi cellulari, disiscriversi da Facebook perché ci sembra di essere impreparati ad affrontare questa sfida.

Questo nuovo scenario ci pone la grande sfida della gestione del tempo, che però non è diversa da tante altre dimensioni “offline”.

È vero che la dimensione sociale è nuova, ma i criteri di scelta sono gli stessi che utilizziamo nelle altre dimensioni. Che è vero che gli algoritmi cercano di portarci su determinate strade, ma che gli eccessi arrivano dalle nostre scelte, non dagli strumenti in sé.

Esistono degli stratagemmi per “smarcarci” da queste trappole mentali ed essere in grado di esser noi a comandare e usare i dispositivi, e non il contrario?

Appuntamento per la seconda puntata!

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